The Earth's Heart

CURRENT MOON

martedì 19 agosto 2014

Love Never Dies

LE FRECCE DI KAMA
Dell'erotismo si può dire, innanzitutto, che esso è l'approvazione della vita fin dentro la morte. G. Bataille) Come una lama che attraversa la carne, così l'amore è per lo spirito. L'amore affonda inesorabilmente nel cuore, simboleggiando la resa del sé che accoglie l'amato. Questo tipo d'amore sostiene l'inesausto progresso interiore. Il suo unico nutrimento è il continuo movimento, l'incessante cambiamento. La mitologia offre simboli adatti a comprendere questa particolare accezione.Il greco Eros,ripreso dai romani come Cupido, è presente anche in India con il nome di Kama, il dio del piacere sessuale. Il suo nome è legato al termine comis, «affabile»/ «allegro». Come Eros e Cupido, anche Kama è dotato di arco e frecce, un arco fatto di canna da zucchero, la cui corda è una fila di api e le cui frecce sono di puro miele, simboli atti a enfatizzare la dolcezza del sentimento amoroso. Essendo un dio igneo, l'ardore è una sua diretta manifestazione. Il fuoco danza senza sosta, muovendosi sinuoso, e consumando tutto ciò che incontra. Le fiamme si nutrono come bocche (il fuoco infatti si alimenta) e trasformando ciò che bruciano, attraverso varie fasi, fino alla completa «digestione». Tutte queste fasi sono altrettanti simboli dell'atto d'amore. L'accenzione del fuoco, mediante un bastoncino di legno (il fallo) posto in una fessura intagliata (la vagina), avviene per sfregamento (il coito), che innalza gradualmente il calore (l'eccitazione), fa scaturire il fumo e le scintille (il piacere) fino all'avvampare della fiamma (l'orgasmo). Inoltre ciò che entra a contatto con il fuoco attraversa le fasi dell'annerimento, dell'incandescenza e della calcinazione o incenerimento: queste hanno dato vita al simbolismo alchemico della nigredo (nero), della rubedo (rosso) e dell'albedo (bianco), che a vari livelli simbolici rappresentano i diversi momenti dell'evoluzione interiore del soggetto nel fuoco della trasformazione spirituale. In un altro senso, le tre fasi alchemiche simboleggiano tre modalità di apparire di una sostanza prodotta dai fluidi sessuali. Come il percorso alchemico può rappresentare metodi e risultati delle fasi di sviluppo interiore, così può indicare i passaggi del coito mistico, come vedremo. In svariati miti hindu Kama viene inviato dagli Dei per disturbare il raccoglimento di Siva, intento nelle sue meditazioni ad accumulare tapas («ardore», cfr. latino tepor), il calore frutto delle pratiche ascetiche. Il tapas comporta un accrescimento indefinito della potenza di volontà, in grado di piegare e asservire la volontà degli altri Dei. Ecco perché Siva è oggetto di questo subdolo stratagemma da parte delle altre divinità, per impedirgli di diventare così potente da modificare l'assetto degli equilibri cosmici. Siva incarna perfettamente l'ambiguità tipica dei Tantra, essendo un dio che coniuga la tensione erotica con la potenza ascetica: è sia il sovrano dello yoga che della sessualità. La sua mitologia mostra come, sospeso tra queste due qualità apparentemente opposte, riesca spesso a integrarle, trasformando il sesso in una forma di yoga, e mettendo l'erotismo al servizio della sua realizzazione. Siva riesce a incenerire Kama usando il terzo occhio, posto al centro della fronte. L'incenerimento di Kama rappresenta il rapporto del dio con il suo desiderio: lo consuma, lo sublima, lo dissolve. In tal modo se ne libera rapidamente, elevandolo dal piano carnale a quello spirtuale, anziché resistergli inaugurando un conflitto estenuante, che provocherebbe la sua distrazione e quindi la perdita del tapas accumulato. Kama, Eros e Cupido vengono rappresentati con le frecce come simboli di penetrazione. Penetrare ed essere penetrati sono due simboli di come approcciarsi alla vita, due rappresentazioni di come la coscienza può rapportarsi al mondo, due possibili atteggiamenti, che non necessariamente si escludono reciprocamente. Si può immaginare la materia come un plasma penetrabile dalla coscienza, che cresce facendo esperienza. Crescendo, la coscienza «si indurisce», tendendo a irrigidirsi nelle proprie convinzioni. La penetrazione della realtà da parte della coscienza si accompagna all'atto volitivo del soggetto che sperimenta il mondo come qualcosa di malleabile, un oggetto che risponde alle istanze del Sé, un campo da seminare con la propria volontà. Il Sé diviene un Logos da eiaculare, per imprimere la propria traccia nel mondo. Parimenti, ci si può rappresentare la coscienza come una cavità, debole e morbida, che accoglie il mondo e ne fa esperienza all'interno, un utero che cova gli stimoli provenienti dall'esterno maturando nuove forme di coscienza, come se la realtà fosse un Logos che eiacula esperienze dentro la nostra psiche, che a sua volta riceve, assorbe e rielabora gli stimoli esterni, in una gestazione che produce crescita interiore, acquisizione di nuove idee, maturità. La natura del dio Kama è del tutto simile a quella del dio greco o romano, riesce quindi anche a stimolare l'innamoramento nei cuori dei soggetti colpiti dalle sue frecce. Il tratto comune alle tre forme di tale divinità è proprio la presenza dell'arco e delle frecce, che suggeriscono qualcosa a proposito della natura dell'amore. In India si evidenzia l'effetto provocato dalle frecce di Kama (stordimento, torpore, perdita di equilibrio), rimarcando il rischio che la lucidità distaccata dello yogin venga messa a repentaglio dall'innamoramento. Molte sono le armi che penetrano la carne. Come le frecce, anche lance e spade possono essere usate per perforare e attraversare la carne. Si tratta di un archetipo di compenetrazione. Questa è la chiave per comprendere la simbologia dei draghi, serpenti o mostri trafitti da eroi, santi o dei. La lotta è come un'unione graduale con la parte caotica, incontrollabile e profonda di sé. Trafiggere il drago con la lama è il culmine di tale unione, come l'orgasmo è l'atto supremo del coito d'amore. Trafiggendolo, lo si attraversa, come la coscienza è obbligata ad attraversare gli inferi, la parte profonda della psiche, il caos per poi riemergere rigerata, migliorata, divina. Il drago-serpente non è il nemico da sconfiggere, ma l'oscurità interiore da integrare, amandola, quindi penetrandola. Meditando sul simbolismo, notiamo che l'arco riesce a scoccare le frecce solo nel momento in cui la corda raggiunge la massima tensione, per poi essere rilasciata di colpo. Anche questo processo può suggerire un'indicazione di ordine pratico: tensione come accumulo di energia e rilascio repentino come metodo esplosivo per avvicinare il risultato voluto. Tendere verso qualcosa è la caratteristica principale, il vero senso del sentimento amoroso e del desiderio stesso. A tale proposito il termine «Tantra» è derivato dalla radice «tan», che forma anche il latino «tendo» e sta per «tendere», appoggiato al suffisso «tra», che si traduce come «strumento per». Ecco che Tantra arriverà a significare «telaio», che effettivamente è uno «strumento per tendere». Non solo il sentimento amoroso tende verso un altro soggetto, anche l'energia psicofisica prodotta dal coito è un crescendo di tensione che si scarica in improvvisi rilasci. Il desiderio non si ferma quando realizza il proprio obiettivo, lo consuma e mette in vista un nuovo bersaglio, perchè il desiderio è continuo movimento, refrattario a ogni stasi. Se rallenta è solo per poter accelerare, se si forma è solo per riprendere forza e ripartire. L'inesauribilità del desiderio lo condanna a una duplicità di trattamento: seguirlo sempre, o fare di tutto per spegnerlo. Torneremo su questo punto più avanti. La presenza delle frecce come elemento comune alle tre divinità rimanda a un concetto che riveste di nuova luce il sentimento amoroso: l'amore come attraversamento. Affinché la coppia non si riduca all'accoppiamento, è necessario comprendere che il sentimento amoroso «passa attraverso» l'amato e lo attraversa, lo supera. Nell'ambito dell'erotismo mistico l'amore consiste nell'oltrepassare continuamente il partner, evitando così il vicolo cieco di un amore che faccia del proprio compagno un fine. Anziché amare il partner, amare attraverso il partner implica scagliare la freccia verso l'alto, in verticale. Questo passaggio va compreso pienamente: se la coppia di amanti è frutto di un'attrazione «magnetica», il collante tra i due rischia di essere l'aspetto più basso della forza di eros, quello in cui si «tende» all'altro e lo si desidera più di ogni altra cosa, in modo esclusivo e totale, per farne un fine, uno scopo. Realizzato il desiderio di unione, si aprono gli scenari che possono ricadere sotto la «normalizzazione» della relazione di coppia. Il desiderio è una forza che non conosce mai fine, non si limita a godere della conquista di ciò che ha realizzato, perchè la natura del desiderio non è avere «questo» o «quell'oggetto», è il movimento, la continua tensione, il desiderare stesso. Ecco il motivo per cui Buddha si concentrò sull'estinzione di quel desiderare che, sapientemente, egli chiamava «sete». Non si può bere e pensare di aver spento la sete per sempre. Non si può realizzare un desiderio e credere di non desiderare null'altro. La lotta al desiderare, oltre a essere una guerra a coefficiente di difficoltà altissimo, se non impossibile per l'occidentale dei nostri tempi, rischia di snaturare l'uomo. Nessuno può mai avere come fine un'altra persona che non sia se stesso. Se l'amante diventa il proprio unico fine, ecco che l'amore entra in un vicolo cieco, ed è destinato ad appassire nel tempo o a creare forme di dipendenza inutili o addirittura dannose per il proprio progresso interiore. In effetti non si ama «questa» o «quella» persona. Ogni partner è una porta. Questa è l'ETICA CAPOVOLTA la natura dell'amore non può andare a braccetto con la restrizione. L'amore è il motore del divenire; libertà e cambiamento sono i suoi sintomi più originari. Un amore che si opponga al superamento di una condizione o che si presti a imporre o sopportare qualche forma di restrizione, non è amore, non l'amore di cui stiamo parlando. Q uando tra due amanti passa l'idea che l'amore trascini con sé una serie di compromessi, si costringe il sentimento amoroso e lo si relega a una sorta di contrattazione, che ne rinnega la natura originaria. Questo accade quando si confonde l'amore con le esigenze del rapporto di coppia. L'amore mistico è l'icona dell'eccezionalità, rifugge la solidificazione. E' il rincorrersi di due spiriti che ricreano e dissolvono la coppia a ogni incontro, come l'apertura e la chiusura di un tempio inaugura e conclude il rituale. Si tratti l'amor di coppia come la nascita di un universo, un evento di portata unica, che si illumina scansando la regolarità e l'abitudine. Continuare a ogni incontro a ricreare la loro prima volta come fosse sempre l'unica volta, ecco il compito degli amanti. La maggior parte delle persone chiama «amore» una forma di morboso attaccamento che rappresenta solo il lato più basso del sentimento amoroso. Uno colma il vuoto dell'altro. Ci si espone così al supremo inganno: credere di trovare nell'altro ciò che in realtà non si è in grado di trovare in se stessi. L'altro è la porta, la soglia da attraversare per sfiorare il contatto con l'assoluto, e continuare l'inseguimento. L'amore è il volo della freccia, breve e perciò di ineguagliabile bellezza. Il bersaglio è si il movente del suo volo, ma è anche la sua fine. Quando si fa dell'altro un obiettivo, la freccia di Eros ravviva la tensione della corda del desiderio, ma nel possedere l'altro come l'oggetto del suo scopo, la freccia si ferma e l'amore recede, per lasciare spazio all'attaccamento e all'identificazione. Così, quando l'abitudine avrà cancellato gli ultimi resti della passione che fu all'inizio, la coppia sopravviverà sospesa tra ricordi e progetti, vincolata da ciò che i due partner hanno costruito. L'intensità del sentimento iniziale potrebbe benissimo lasciare tracce così profonde, indelebili, da renderli favorevoli a sopportarsi a oltranza. La paura di cambiare si traveste da volontà di mantenere l'impegno assunto; così l'amore, affievolito, subisce l'accanimento terapeutico di chi non osa porre fine al rapporto, per comodità, convenienza timore o per abitudine, e si converte in tutt'altro. La coerenza talvolta è la maschera che cela il timore per il cambiamento. L'amore disimpegna, se diviene impegno scivola in un altro terreno, che non è il piano del volo della freccia. L'amore che scioglie e libera è preferibile all'amore che costruisce e lega, nell'ambito di cui ci occupiamo, perché la sua potenza si rivela come liberatrice solo nella resa e nell'abbandono, non nel vincolo e nel condizionamento. La promessa dell'amore eterno è una pietra scagliata nel cuore degli amanti: l'ingombro di un peso e di un restringimento, anziché di un alleggerimento e di un'apertura. Nessuna eternità è concessa agli amanti, eccetto l'istante. Di eterno, l'amore ha il continuo movimento, non la stasi. L'estasi nega la stasi. L'unica fonte di stabilità, in amore come nella vita, è il cambiamento. Fare del divenire la sola costante, per predisporsi all'evoluzione. Se non promuove il cambiamento, l'amore si converte in una limitazione della libertà, una catena ben nascosta dall'affetto, dalla tenerezza, forse dalla convenienza. Il solo vincolo tra amanti è l'amore stesso, e non la promessa della sua durata. L'eternità è contraddetta e proibita dall'estasi. L'amore mistico è un divieto assoluto di sosta. «Tante brevi follie», così Nietzsche, in Così parlò Zarathustra, definiva l'amore, proprio quel tipo di amore che è oggetto di questa trattazione. Lo scopo del sé, in amore, è il darsi senza pretendere nulla in cambio. Non il dare per ricevere. Nessuno spazio è concessoal do ut des, che pare una versione aziendale dell'amore. La chiave è la completa resa dell'amato. Ciò rivela la natura dell'amore come libertà, perché la resa è un lasciar andare, un aprire il pugno, un con-cedere. In questo senso l'atto d'amore è un'eiaculazione del proprio sé o delle emozioni con cui si desidera impregnare il cosmo. La pretesa di dare per avere introduce l'ombra dell'egoismo in amore, il che è una maledizione; la pretesa del possesso diventa ossessione, l'estensione della proprietà sul corpo, la mente o l'anima altrui è una degenerazione, una depravazione che conduce al dolore e alla rovina. L'amore si converte in odio quando cede il passo a simili storture. Dove vi sia possesso, non vi è elevazione interiore. In realtà non possediamo neppure il nostro corpo fino in fondo (che si può ammalare, che muore), come si può quindi pensare di possedere un corpo altrui? Mascherando le paure e le lacune interiori dietro gelosia, possessività, attaccamento, dipendenza, si rende visibile il solo lato manchevole dell'amore, che lo soppianta con la restrizione.
Dal libro - Erotismo e Spiritualità - Claudio Marucchi

venerdì 11 luglio 2014

Racconto della Creazione - dal film NOAH (2014)


Se la tua Mente 

giudica e sceglie, quale 
motivo hai tu 
per/di condannare? 



La differenza è necessaria. 
In quanto ... in questa discrepanza, in cui nessuno è uguale a nessun altro ... ma tutti siamo simili, nasce la vita. 



venerdì 9 maggio 2014

Decreto: NOSTRA AETATE

la ricerca, è comune; la PRASSI è simile... 

Il documento NOSTRA AETATE: attraverso una serie di descrizioni che riassumono, non esauriscono; le religioni non cristiane, definisce il rapporto che la Chiesa ha con esse. 

Nel corso del 1960 vennero nominate le commissioni preparatorie, le quali dovevano preparare quelli che noi chiameremmo oggi i "documenti di lavoro". Un Concilio, naturalmente, deve avere dei documenti sui quali lavorare. Non può partire da zero. Vi sono dei documenti già stesi, già elaborati e che vengono sottoposti alla discussione e che possono essere accettati, o rifiutati, o modificati. Nel linguaggio conciliare tali documenti si chiamavano schemi; appunto perché non essendo definiti, ma essendo solo documenti di lavoro erano erano degli schemi che dovevano essere poi elaborati. Le Commissioni preparatorie prepararono settanta schemi su tutti gli argomenti che parvero dovessero e potessero interessare il Concilio. L'11 ottobre 1962 il Concilio si riunì; erano presenti duemiladuecento e più Padri conciliari; questa denominazione riguardava sia i Vescovi che gli altri con diritto di partecipazione: vale a dire gli Abati e i Superiori Generali degli Ordini religiosi. Oltre ad essi, nell'aula conciliare costituita dalla Basilica di S. Pietro in Roma erano presenti i teologi che ciascun Padre conciliare aveva diritto di portare con sé come collaboratori ed i rappresentanti delle Chiese ortodosse e protestanti. Struttura del Concilio: al vertice, presidente del Concilio, il Papa. Un Concilio ecumenico non è valido se non è convocato dal Papa, presieduto dal Papa e approvato dal Papa. Il Papa presiedeva però intervenendo soltanto nelle grandi circostanze; ma il presidente del Concilio resta lui. A rappresentarlo normalmente in Concilio c'era una Presidenza formata da 12 Cardinali, un po' di tutto il mondo: italiani, francesi, spagnoli, belgi, ecc.; 12 Cardinali che rappresentavano un po' la Chiesa di tutto il mondo e formavano la Presidenza, che immediatamente dirigeva le sedute conciliari. Tale assetto funzionò tuttavia solo durante i lavori del 1962; dal 1963 al 1965, cioè dalla seconda ripresa fino alla fine, il compito di dirigere le sedute conciliari fu infatti affidato a quattro Padri, che furono chiamati i "moderatori" del Concilio. Erano il Cardinale Agagianian, primate degli armeni, il Cardinale Suenens, arcivescovo di Bruxelles e Malines, il Cardinale Döpfner arcivescovo di Monaco di Baviera, e il Cardinale Lercaro di Bologna. Erano i quattro moderatori con l'immediato governo dell'aula conciliare e delle sedute conciliari. Accanto era una segreteria presieduta dal Cardinale Felici, coadiuvato da quattro vice-segretari. Per il lavoro poi, non in aula, ma fuori dell'aula vi era la Commissione centrale, che aveva il compito di esaminare i problemi procedurali del Concilio. I problemi della dottrina li risolveva il Concilio; i problemi di procedura venivano svolti dalla Commissione centrale. Infine c'erano le Commissioni conciliari, con il compito di rifondere, cambiare e migliorare i singoli schemi secondo le indicazioni scaturite dalla discussione in aula. Procedura dei lavori: questa struttura - Papa. Presidenza, Moderatori, Padri, Commissione centrale, Commissioni conciliari - procedeva così. La Commissione centrale decideva di sottoporre alla attenzione del Concilio un documento: mettiamo il documento sulla Liturgia. Allora veniva portato in Concilio questo documento; naturalmente veniva messo nelle mani di tutti i Padri e veniva pubblicamente letto. Dopo che il documento era stato letto seguivano gli interventi di Padri a favore o contrari ad una sua accettazione generale; dopo di che, c'era una prima votazione: era la votazione se il documento nel suo insieme meritava di dover essere accettato o doveva essere respinto. Se era respinto, la Commissione centrale doveva prendere atto e incaricare la Commissione che aveva fatto il documento di prepararne un altro. Se invece era stato accettato di massima, come si dice, si sottoponeva ulteriormente al Concilio, ma questa volta capitolo per capitolo e , per ogni capitolo, articolo per articolo. I Padri discutevano giornate e anche settimane; dopo di che si votava. Il voto si esprimeva in tre forme: placet, non placet, e placet iuxta modum. In questo terzo caso bisognava consegnare scritte le proposte di cambiamento. Tutto questo elaborato - il capitolo dunque che era stato votato, i si e i no e soprattutto le proposte di cambiamento - venivano prese in esame dalla Commissione incaricata dello schema. Il capitolo veniva corretto secondo i suggerimenti dati e quindi ripresentato, risottoposto alla discussione, risottoposto alla votazione, finché si arrivava ad una redazione che raccoglieva almeno i due terzi dei voti. Era un lavoro discretamente faticoso, discretamente lungo, ma era una procedura sana, una procedura libera, una procedura sicura, perché bisognava raggiungere i due terzi di voto. Quando il documento era stato esaminato in tutti i suoi capitoli, si risottoponeva tutto intero, perché venissero suggerite altre eventuali modificazioni. Dopo di che veniva approvato definitivamente. 


NOSTRA AETATE: DICHIARAZIONE SULLE RELAZIONI DELLA CHIESA CON LE RELIGIONI NON CRISTIANE 

Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l'interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di promuovere l'unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino. I vari popoli costituiscono infatti una sola comunità. Essi hanno una sola origine, poiché ha fatto abitare l'intero genere umano su tutta la faccia della terra hanno anche un solo fine ultimo, Dio, la cui Provvidenza, le cui testimonianze di bontà, e il disegno di salvezza si estendono a tutti finché gli eletti saranno riuniti nella città santa, che la gloria di Dio illuminerà e dove le genti cammineranno nella sua luce. 
Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uomo; la natura dell'uomo, il senso e la fine della nostra vita, il bene e il peccato, l'origine e lo scopo del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sensazione dopo la morte, infine l'ultimo e infallibile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo. 
Le diverse religioni 
Dai tempi più antichi fino ad oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità a quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, ed anzi talvolta vi riconosce la Divinità suprema o il Padre. Questa sensibilità e questa conoscenza compenetrano la vita in un intimo senso religioso. Quanto alle religioni legate al progresso della cultura, esse si sforzano di rispondere alle stesse questioni con nozioni più raffinate e con un linguaggio più elaborato. Così, nell'induismo gli uomini scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia; cercano la liberazione dalle angosce della nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza. Nel buddismo, secondo le sue varie scuole, viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema per mezzo dei propri sforzi o con l'aiuto venuto dall'alto. Ugualmente anche le altre religioni che si trovano nel mondo intero si sforzano di superare, in vari modi, l'inquietudine del cuore umano proponendo delle vie, cioè dottrine, precetti di vita e riti sacri. La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini. Tuttavia essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è «via, verità e vita» (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con sé stesso tutte le cose. Essa perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni. sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi. 
La religione musulmana 
La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l'unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini resuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno. 
Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà. 
La religione ebraica 
Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo. La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti. Essa confessa che tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede, sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell'esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell'Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l'Antica Alleanza, e che essa stessa si nutre dalla radice dell'ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell'ulivo selvatico che sono i gentili. La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in sé stesso. Inoltre la Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell'apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua stirpe: «ai quali appartiene l'adozione a figli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne» Rm 9,4-5), figlio di Maria vergine. Essa ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e così quei moltissimi e primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo di Cristo. Come attesta la sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata; gli Ebrei in gran parte non hanno accettato il Vangelo, ed anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione. Tuttavia secondo l'Apostolo, gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento. Con i profeti e con lo stesso Apostolo, la Chiesa attende il giorno, che solo Dio conosce in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e «lo serviranno sotto uno stesso giogo» (Sof 3,9). Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo. E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo. E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo. La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque. In realtà il Cristo, come la Chiesa ha sempre sostenuto e sostiene, in virtù del suo immenso amore, si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini e affinché tutti gli uomini conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è dunque di annunciare la croce di Cristo come segno dell'amore universale di Dio e come fonte di ogni grazia. 

[ il Fratello che più si ama... è quello  
che non si conosce ]

Fraternità universale 
Non possiamo invocare Dio come Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati ad immagine di Dio. L'atteggiamento dell'uomo verso Dio Padre e quello dell'uomo verso gli altri uomini suoi fratelli sono talmente connessi che la Scrittura dice: «Chi non ama, non conosce Dio» (1Gv 4,8). Viene dunque tolto il fondamento a ogni teoria o prassi che introduca tra uomo e uomo, tra popolo e popolo, discriminazioni in ciò che riguarda la dignità umana e i diritti che ne promanano. In conseguenza la Chiesa esecra, come contraria alla volontà di Cristo, qualsiasi discriminazione tra gli uomini e persecuzione perpetrata per motivi di razza e di colore, di condizione sociale o di religione. E quindi il sacro Concilio, seguendo le tracce dei santi apostoli Pietro e Paolo, ardentemente scongiura i cristiani che, «mantenendo tra le genti una condotta impeccabile» (1Pt 2,12), se è possibile, per quanto da loro dipende, stiano in pace con tutti gli uomini, affinché siano realmente figli del Padre che è nei cieli. 
Tutte e singole le cose stabilite in questo Decreto, sono piaciute ai Padri del Sacro Concilio. E Noi, in virtù della potestà Apostolica conferitaci da Cristo, unitamente ai Venerabili Padri, nello Spirito Santo le approviamo, le decretiamo e le stabiliamo; e quanto stato così sinodalmente deciso, comandiamo che sia promulgato a gloria di Dio. 
Roma, presso San Pietro, 18 ottobre 1965, Io PAOLO Vescovo della Chiesa Cattolica. 


martedì 6 maggio 2014

Pino D'Andrea - L'AMORE MATURO



L'AMORE MATURO 

Lascio scivolare i minuti 
come gocce di sole 
nello scorrere lento del tempo, 

è nel rispetto del tuo volo 
che non ti stringo a me, 
perché ogni abbraccio soffoca 
se non è liberato. 

L'amore maturo questo nutre: 
le stagioni dell'equilibrio, 
quando tutto appare nella verità, 
senza ombre né ristagni. 

Abbracciai il tuo corpo, 
parlammo la stessa lingua, 
sognammo terre vergini 
dove vivere senza sogni 
quel che è possibile 
e che altri chiamano utopie. 

L'amore maturo, 
quello che scorgi 
nel raggio che attraversa i capelli 
e risplende come un candido marmo 
che si plasma statua di grazia 
nell'evocazione di innati equilibri. 

So dove sei, ma non ti cerco 
So esser il tuo luogo 
Lì dove nessuno ti potrà ferire 
E dove io, ignaro, 
approderò in un giorno senza limiti 
dopo un lungo viaggio d'oblio.

Pino D'Andrea




martedì 1 aprile 2014

L'OCCHIO




Si dice per varie ragioni che l'occhio umano sia il più esoterico degli organi. Ciò suggerisce che la sua forma, la sua struttura e le sue funzioni siano simboli di profondo significato interiore, le cui implicazioni agiscono a tutti i livelli dei sette piani della coscienza umana, e che chiamano in causa i concetti relativi sia al microcosmo (i regni inferiori all'Uomo) che al macrocosmo (i regni superiori). Tali concetti si rivelano a quegli studiosi di scienze esoteriche che spingono la loro ricerca fino alla profondità necessaria.

Lo sviluppo dell'occhio procede parallelo alla regressione della ghiandola pineale. Immergendosi progressivamente nella materia, l'Uomo vi rimane irretito, sviluppando un corpo fisico sempre più "grossolano" per mezzo del quale interagiva con l'ambiente esterno; gli occhi rispecchiarono questo processo diventando altamente organizzati, specializzati ed essenzialmente funzionali. D'altro canto, la ghiandola pineale si ritirò dal contatto e dal coinvolgimento con il mondo esterno, diventando meno specializzata e quasi disfunzionale. Ora essa è il simbolo esterno dell'organo della visione interiore, ed emergerà dal proprio "pralaya" soltanto nel periodo finale della Sesta Razza Radice. Resta comunque funzionale come ghiandola endocrina, il cui ruolo consiste nel mantenimento dei cicli e dei ritmi corporei; questi sono il riflesso in miniatura dei grandi cicli attraverso i quali la ghiandola pineale si è evoluta.

Uno studio approfondito della macchina fotografica aiuta a comprendere l'anatomia e la fisiologia dell'occhio; entrambi sono infatti strumenti ottici in grado di registrare le variazioni luminose nell'ambiente. Sia l'occhio che la macchina fotografica sono provvisti di una lente, di un'apertura variabile e di uno strato materiale fotosensibile. La lente dell'occhio umano comprende numerose strutture, tra cui la cornea - che è una modificazione della sclera, vale a dire un rivestimento bianco/bluastro che permette il passaggio della luce - il cristallino, sospeso fra due legamenti, e la sostanza liquida posta fra la cornea e il cristallino. La combinazione di questi elementi provoca la convergenza delle onde luminose e la formazione dell'immagine sullo strato di cellule fotosensibili posto sul fondo dell'occhio (la rètina).
la curvatura della lente può essere modificata volontariamente attraverso il meccanismo che prende il nome di "accomodazione".
Questa si ottiene per mezzo dei legamenti attaccati alla capsula fibrosa che racchiude il cristallino. Questi legamenti possono, per il fatto di essere attaccati alle estremità della capsula, far trazione su di essa e così cambiarne la forma. Il risultato è una lente curva ottenuta esercitando vari gradi di tensione su una lente piatta. Il meccanismo permette all'occhio di variare la messa a fuoco dagli oggetti vicini agli oggetti lontani, portando sempre a convergere sulla rètina l'immagine che ne risulta. Il muscolo ciliare circolare che esercita trazione sui legamenti sospensori è controllato dal sistema nervoso parasimpatico.

L'iride è un muscolo circolare che allarga o restringe l'apertura dell'occhio che chiamiamo pupilla. Nelle sue fibre è depositato un pigmento che dona agli occhi il loro colore caratteristico... grigio, verde, marrone, blu, ecc. L'azione dell'iride consiste nel regolare la quantità di luce che entra nell'occhio, in funzione della luminosità dell'ambiente. Il diametro della pupilla può variare da 1,5 ad 8 mm, con un'oscillazione della quantità di luce in ingresso pari a quasi trenta volte.

Alla luce che entra nell'occhio è impedita la dispersione grazie allo strato scuro delle cellule pigmentate che si trovano sotto la rètina. All'esterno della rètina c'è un rivestimento contenente i vasi sanguigni, detto appunto rivestimento vascolare. Al di là di esso c'è la sclera, l'involucro bianco fibroso che avvolge il bulbo oculare. 

LA RETINA 

L'interno del'occhio è interamente ricoperto dalle cellule fotosensibili che costituiscono la rètina. Ciascuna cellula è collegata al cervello attraverso le fibre nervose del nervo ottico. In realtà lo stesso nervo ottico è una parte del cervello, la sola parte visibile dall'esterno. Per tale motivo possiede un grande significato esoterico, come vedremo presto.

Nella rètina vi sono due tipi di cellule, i coni e i bastoncelli. Questi ultimi reagiscono soprattutto al bui e alla luce, mentre i coni contengono i pigmenti cromosensibili; i coni inoltre non soltanto governano il meccanismo della visione a colori, ma contribuiscono ad un'immagine nitida e dettagliata, quali i bastoncelli da soli non potrebbero offrire. Questa precisione nel colore e nel dettaglio raggiunge il suo massimo in una piccola area di cellule coniche al centro della rètina, chiamata macula. Al centro della macula un ulteriore addensamento di coni forma la fòvea. Nella fòvea tutto ciò che può essere di ostacolo, vasi sanguigni, ecc., si trova su un solo lato. I coni stessi sono divisi in tre gruppi, ognuno dei quali è particolarmente sensibile ad un colore specifico. per esempio il rosso, o il blu, o il verde (e, in misura minore, alle combinazioni di questi). In tal modo il cervello può registrare tutti i colori dello spettro, anche se solo in termini di impulsi elettrici.

Prima di individuare i legami esoterici fra queste parti anatomiche e il loro profondo significato interiore, il discepolo dovrebbe acquisire una certa familiarità con esse.

A questo punto, possiamo fare ricorso all'affinità strutturale fra l'occhio e la macchina fotografica. Il funzionamento di quest'ultima è basato sulle leggi della fisica. Lo stesso vale per l'occhio umano nei suoi aspetti esoterici. L'interno dell'occhio è rivestito di materiale scuro e pigmentato posto proprio dietro lo strato di cellule fotosensibili che costituisce la rètina. Anche l'interno della macchina fotografica è fotorepellente, e contiene, come l'occhio, sufficiente spazio per permettere la formazione dell'immagine. In entrambe le strutture niente di esterno interferisce con tale processo. L'occhio è come un santuario, un luogo sacro in cui solo determinate energie purificate possono entrare.

La macchina fotografica contiene l'equivalente dell'iride. Negli occhi dell'Uomo l'iride è composta da fibre muscolari disposte radialmente attorno ad un foro che lascia entrare la luce, chiamato pupilla. Nelle fibre muscolari è depositato il pigmento che dona agli occhi il loro colore. La pupilla agisce come un diaframma, la cui apertura può essere modificata per far entrare una maggiore o minore quantità di luce.

La funzione della lente nella macchina fotografica come nell'occhio è ovvia, ed è quella di focalizzare le onde luminose in un'area sensibile, nella quale si crea un'immagine capovolta di grande chiarezza.

La forma della lente oculare si modifica per mettere a fuoco tanto gli oggetti lontani che quelli vicini. I muscoli ciliari e i legamenti sospensori possono curvarla oppure appiattirla. Nella macchina fotografica la forma della lente non si modifica; un piccolo mantice permette di spostarla in modo da ottenere i medesimi effetti di adattamento.

Lo strato di cellule su cui si forma l'immagine prende il nome di rètina. Qui le cellule fotosensibili reagiscono costantemente alla luce che colpisce. Alcune sono reattive solo in termini di buio e luce. Altre reagiscono sottilmente alle diverse lunghezze d'onda, che chiamiamo colori. Le prime cellule prendono il nome di "bastoncelli", le seconde di "coni". nella macchina fotografica la funzione di queste cellule, così vitali per porre l'organismo in relazione con l'ambiente esterno, è esercitata da una pellicola fotosensibile. Ogni fotogramma può reagire ad una sola immagine, mentre nell'occhio una serie continua di immagini viene trasmessa dalle cellule fotosensibili al cervello per mezzo di terminazioni nervose. Queste sono rivestite di una sostanza bianca e grassa, e costituiscono il nervo ottico (Il Nervo Encefalico). La pellicola fotografica, dopo l'esposizione, deve essere sottoposta a sviluppo e fissaggio. L'occhio sostituisce queste operazioni con la trasmissione in codice dell'informazione contenuta nell'immagine al cervello. Impulsi elettrici trasportano l'informazione lungo il nervo ottico, e la depositano in una speciale area di smistamento situata sulla superficie cerebrale., la corteccia visiva. il cervello può allora registrare o memorizzare l'informazione ottenuta, oppure scartarla. Per le operazioni finali la macchina fotografica deve disporre di un tecnico. Nell'Uomo tali operazioni spettano all'ego o personalità (nell'Uomo comune) e all'Anima (nell'Uomo evoluto). 





Il problema dello sviluppo degli occhi ha dato lo spunto ad una delle più stringenti critiche rivolte alla teoria prospettata da Darwin  per spiegare l'evoluzione mediante il processo dell'evoluzione naturale. Quando progettiamo uno strumento, possiamo costruire numerosi modelli sperimentali del tutto inutili; una simile possibilità viene esclusa nel processo della selezione naturale poiché ogni nuovo carattere deve essere vantaggioso per chi lo possiede, e solo risultando tale può venire tramandato alle successive generazioni. Ma a che cosa potevano servire delle lenti capaci di fornire delle immagini se non esisteva un sistema nervoso capace di interpretarle? E come d'altronde si sarebbe potuto sviluppare un sistema nervoso preposto alla percezione delle immagini prima di un occhio capace di fornirle? 

R. L. Gregory, Occhio e Cervello. La psicologia del vedere (Il Saggiatore)


Come in Alto, così in Basso, recita una - fondamentale - massima occulta. In modo analogo, ogni entità individuale è creata ad immagine di Dio, ed è perciò una fotocopia in miniatura di tutto l'Universo. Il che è vero in due sensi. Prima di tutto ogni cosa, non importa quanto grande o quanto piccola, è creata ad immagine dell'Unica Realtà Assoluta. Più in particolare, ogni entità è creata ad immagine "dell'Uno nel quale vive, si muove ed esiste." Così, per esempio, una cellula ematica rispecchia tutto l'Universo, ma al tempo stesso è un'immagine dell'entità (l'Uomo) nella quale esiste. Al tempo stesso ogni microcosmo (la parte), per esempio un pianeta o un uomo, agisce in qualità di "macrocosmo minore" il cui particolare archetipo o immagine si rispecchia nella miriade di vite al di sotto di esso. 


L'IRIDE COME SPECCHIO DELLA SALUTE E DELLA MALATTIA: L'iride riflette lo stato di salute o di malattia di un individuo. Un diagnostico esperto in questo campo può ricavare dall'esame dell'iride un quadro completo delle condizioni fisiche, mentali ed emotive della persona. 


dal testo - Anatomia Esoterica - di Douglas Baker - Vol. I

giovedì 26 dicembre 2013

La ricchezza è una fortuna o un pericolo?




E' noto quanto il rapporto degli esseri umani con i beni terreni sia sottoposto al cambiamento, ed è un compito della scienza definire meglio il suo significato per il singolo popolo e per la singola epoca, nonché approfondire le sue oscillazioni in base all'effetto che esercitano su tutta la vita del popolo. Al contempo, però, con questo cambiamento compare anche qualcosa di stabile e diffuso, più o meno marcato in questo o quel popolo, ma sicuramente un patrimonio comune a tutti, fintanto che intendiamo con popolo le masse, non i ceti che emergono per formazione e maggiore consapevolezza: ovvero il credere che esista un rapporto stretto tra ricchezza e felicità e tra povertà e infelicità, in una parentela intima tra i beni esteriori e la felicità interiore del singolo. E' evidente, e l'esperienza lo conferma continuamente, che questo nesso non è affatto necessario: che, al contrario, molto spesso accanto alla ricchezza abita l'inquietudine dell'anima, la miseria spirituale, la disperazione, e che, invece, al riparo della povertà, presso una misera sorte, possono essere di casa pace interiore e lieta soddisfazione. Infatti, riconoscere nell'aspirazione alla ricchezza qualcosa di innaturale e che in generale contraddice i diritti degli uomini è sbagliato tanto quanto elevare la  ricchezza a unico e più alto scopo dell'uomo. Dobbiamo imparare a riconoscere che la ricchezza e la povertà non implicano in sé e per sé la felicità o infelicità, ma che il modo in cui ce ne serviamo può accrescere l'una come l'altra.
Indaghiamo allora le condizioni alle quali la ricchezza può essere una fortuna per le persone e quelle alle quali può provocare pericoli di ogni tipo e disturbare la pace interiore. Poiché, infatti, la felicità può essere definita soltanto come una condizione interiore, come una certa armonia tra le facoltà spirituali e morali, allora perché la ricchezza accresca la felicità deve avere effetto sulla vita spirituale e morale dell'uomo. Ed è sufficiente accennare al fatto che, da una parte, al ricco sono dati gli strumenti per sviluppare il proprio spirito verso una gran perfezione, per ampliare i suoi orizzonti per esempio viaggiando, e portare tutte le forze spirituali al proprio servizio: tutte cose che al povero rimangono sconosciute per la limitatezza dei suoi mezzi. D'altra parte, il ricco non conosce quei pericolosi stati d'animo in cui può sprofondare il povero infelice quando la sua moralità rischia di soccombere nella battaglia con le necessità e la miseria; di contro, egli può intervenire concretamente per dare sollievo alle condizioni di emergenza o per sostenere i poveri, i malati e gli orfani, non solo con consigli e proposte, ma anche con i propri mezzi. In generale la ricchezza gli dà una maggiore indipendenza dagli uomini, mentre, d'altro canto, la sua influenza può avere effetti benefici sugli ambienti che lo circondano, laddove, invece, il nome e le attività del povero raramente divengono celebri e scompaiono con la sua morte. In generale il ricco ha tempo per dedicarsi alla sua formazione intellettuale e morale; il povero è privo spesso e dell'una e dell'altra, anche solo perché costretto a far fronte ai bisogni necessari. E così al ricco è data la possibilità di arricchire la propria vita di grazie e bellezza e di acquisire finezza di sentimento e possibilità di gustare l'esistenza, ragion per cui il bracciante a giornata, che lavora con il sudore della fronte, considera fortunato il proprio ricco proprietario terriero.
E tuttavia l'esperienza offre spesso un'immagine dell'uomo ricco del tutto diversa da quella che ho tratteggiato. Spesso vediamo come quei mezzi che egli dovrebbe impiegare per la propria formazione vengano dissipati in piaceri smodati; come la finezza del sentimento si rovesci, da un lato, in una insensibile durezza verso il prossimo e, dall'altro, in una rude brama di piaceri sensuali. Invece di un lieto benessere gli si sono annidate nel cuore cattive passioni, che non soltanto lo portano alla rovina ma esercitano anche un influsso deleterio sul suo ambiente. Riconosciamo che anche al ricco si fanno incontro pesanti tentazioni, spesso in forma graziosa e seducente, non certo minori di quelle che cercano di irretire i poveri, e più pericolose, perché, abitualmente, non portano con sé la sventura solo per il singolo. Riconosciamo che la facilità con cui si dispone dei mezzi per vivere spinge il ricco a disprezzare il lavoro e anche a disistimare i suoi simili più poveri, come del resto la sua vita oziosa è capace di piantare nel suo cuore il germe di tutte le possibili passioni.
Quindi, anche la ricchezza è un bene dubbio, come l'onore esteriore, che nelle mani degli uomini può rovesciarsi in benedizione o maledizione, ogni qualvolta la ricchezza e l'onore sono solo esteriori e non si fondono positivamente con una ricca vita emotiva e una rettitudine interiore. Malgrado quei pericoli, non c'è nulla di più fondato dell'aspirazione umana verso la ricchezza, così come si manifesta in tutti gli strati del popolo: essa si basa sull'idea che la ricchezza includa  molte condizioni necessarie per una vita bella e veramente degna di essere vissuta. 


Friedrich Nietzsche