"IL SERPENTE VENTO DI TENEBRA
PRIMOGENITO DELLE ACQUE ... "
(Hipp. Haer. V, 19, 19)
Sulla cosmologia sethiana
in rapporto alla teologia di Ieronimo ed Ellanico
Ippolito rileva come i Sethiani pongano all'origine del tutto tre princìpi, nettamente delimitati e ciascuno provvisto di infinite potenze. Essenze dei princìpi sono Luce e Tenebra, mentre nel loro mezzo c'è Spirito puro. Lo Spirito, disposto tra la Tenebra in basso e la Luce in alto, viene rappresentato da Ippolito come effluvio di profumo che si insinua con straordinaria fragranza. In questa disposizione, Luce in alto, Tenebra in basso, Spirito nel mezzo, la prima risplende dall'alto come raggio di sole verso Tenebra, mentre Spirito penetra ovunque, proprio come l'olezzo dell'incenso quando si diffonde nell'ambiente in cui è posto. Potenze della Luce e dello Spirito si diffondono dunque nella Tenebra, che però i Sethiani immaginano come acqua spaventosa, verso la quale vengono attratti Luce e Spirito. Acqua-Tenebra non vuole rimanere sola e oscura, e per questo ha assoluta necessità di Luce, tanto che si industria, con la sua intelligenza, a fare in modo che rimanga presso di lei almeno una scintilla dello splendore, unitamente alla fragranza dello Spirito. Come Tenebra rivendica per sé lo splendore, avendo così la capacità di vedere, così Luce e Spirito rivendicano la loro potenza e si adoperano a riportare a sé le potenze che si sono mescolate all'acqua/Tenebra sottostante. Ippolito precisa anche che nella cosmologia sethiana tutte le potenze dei tre princìpi, infinitamente infinite di numero, sono dotate d'intelletto e ragione ognuna secondo la sua essenza; fin quando ciascuna potenza resta fissa in sé stessa, queste si trovano in uno stato di quiete; ma quando una potenza si avvicina all'altra, la mancanza di omogeneità nel contatto produce un movimento. Ne risulta come l'impronta di un sigillo, e poiché infinite sono le potenze che vengono a scontrarsi, infinite sono le immagini che ne derivano, le forme degli esseri viventi.
Ippolito continua riferendo che dalla prima grande collisione dei tre princìpi è risultata una grande forma di sigillo, quella del cielo e della terra. Entrambi questi elementi si presentano con una forma assai simile a quella di un utero con al centro un ombelico. In mezzo, tra la terra e il cielo, sono avvenuti infiniti scontri di potenze, tutti producenti un sigillo del cielo e della terra, e in esso, dagli infiniti sigilli, è sorta una moltitudine di diversi esseri viventi, inseminata e suddivisa insieme con Luce e Spirito. Il Dio perfetto, portato da Luce ingenerata e da Spirito giù nella natura umana, generato dall'acqua per impulso della natura e per spinta del vento, mescolato con i corpi e diventato luce per la tenebra, cerca di liberarsi dai corpi ma non riesce a trovare la via per uscire. Il supremo compito di Luce è quello di cercare di capire come l'Intelletto, che è il Dio perfetto, possa liberarsi dalla morte del corpo. Qui emerge un riscontro con altri schemi protologici attestati nel cristianesimo antico. L'Intelletto, l'elemento divino decaduto nel mondo, non è stato realmente generato dal Demiurgo. Costui ha plasmato l'uomo materiale e vi ha immesso l'elemento divino decaduto nella materia caotica, la quale però non è della sua stessa essenza, essendogli superiore. Ippolito, con un linguaggio fortemente immaginifico, sottolinea come nell'idea sethiana un raggio sia disceso dall'alto, da quella Luce perfetta, e sia rimasto imprigionato nell'acqua/Tenebra, e sarebbe questo raggio lo Spirito luminoso che vaga sopra le acque in Gen 1,2. Il vento che soffia, nel medesimo testo biblico, sarebbe allora simile a un serpente, pur essendo alato, e da questo vento/serpente deriverebbe il principio della generazione, dato che tutti gli esseri hanno ricevuto insieme il principio della generazione. Il serpente/vento penetra nell'utero dove sono stati imprigionati Luce e Spirito, e genera l'uomo. A questo punto avviene una deviazione, uno spostamento rispetto alla perfezione del Logos della Luce dall'alto: questo penetra nell'utero impuri, avendolo ingannato con l'essersi reso simile alla bestia, così da spezzare le catene che avvolgono l'intelletto perfetto generato nell'impurità dell'utero del primogenito dell'acqua, serpente/vento/bestia. Questa sarebbe la forma del servo di Ef 2,7, e sarebbe inoltre questo il motivo per cui il Logos di Dio è dovuto discendere nell'utero della Vergine e ha dovuto non solo nascere, ma addirittura patire le sofferenze che devono patire coloro che vogliono svestirsi dalla forma del servo e rivestirsi della veste celeste.
Il travestimento del Logos per ingannare la tenebra, cioè discendere nel mondo e liberare il seme divino, corrisponde a quello che in altri testi è il motivo della discesa nascosta del Redentore attraverso i cieli in varie forme angeliche. Entrando nel seno della Vergine, il Logos è come se si fosse contaminato con la sua materialità, da qui l'importanza del battesimo di Gesù, interpretato come purificazione del Logos, e del successivo accenno all'acqua zampillante di Gv 4,10 come l'unzione a cui prendono parte tutti gli uomini spirituali. Il passo di Ef 2,7, sottolinea Ippolito, confermerebbe una simile visione, visto che lì, emerge, secondo i Sethiani, la necessità che ha avuto il Logos di rivestire la forma materiale, quella del servo, la stessa di cui ha dovuto spogliarsi per riappropriarsi della sua dimensione celeste.
Come si vede, la notizia tramandata da Ippolito rappresenta un vero e proprio amalgama di tradizioni di diversa provenienza. Lo stesso Ippolito riferisce che il discorso propugnato dagli assertori della dottrina sethiana mette insieme concetti della fisica e altri elementi che si riferiscono a contesti diversi e che essi interpretano adattandoli alla propria dottrina. Ippolito sottolinea anche che una conferma a tale visione del mondo e del cosmo i Sethiani la ravvisano nella Bibbia, e in alcuni passi soprattutto del pentateuco, riconducendo così il tutto all'autorità mosaica.
Non è mia intenzione riprendere la complessa questione della provenienza dei riferimenti che il passaggio citato da Ippolito chiama in causa; studi più o meno recenti hanno già svolto questo compito con successo, fornendo agli studiosi materiali comparativi su cui riflettere ulteriormente. A ciò si unisca che le indagini degli ultimi decenni sul cosiddetto gnosticismo, non sempre condivisibili in toto, hanno però giustamente ravvisato quanto ormai difficile conservare una visione genetica dei fatti culturali in questione, derivando, spesso semplicisticamente, dai testi pervenutici vere e proprie ideologie, olisticamente rappresentative di un macrocontesto e disancorabili dai testi in quanto espressioni culturali e sociali di concreti e singoli gruppi, tentando di costruire filiazioni (questo deriva da quest'altro!), in una visione lineare e finalistica dello sviluppo delle stesse. Il mio intento, in questa sede, è valutare la funzione che determinati racconti o discorsi protologici assumono all'interno di concreti gruppi sociali, così da valutare il modo con cui questi si riappropriano e/o intervengono su frammenti tradizionali per farli meglio aderire ai propri scopi, in programmi di costruzione dell'autorità che risultano fondati, in questo modo, o sulla ripresa di protoi heuretai ritenuti scaturigine della stessa autorità o sull'attacco di altri visti come elusivi o devianti.
Nella notizia di Ippolito, un ruolo importante, a livello protologico, è costituito dal serpente, definito a chiare lettere òphis. Nella Parafrasi di Seth, il serpente riveste una duplice funzione, negativa in quanto alter ego del demiurgo, e positiva, in quanto espressione del potere del Logos, riflettendo forse il duplice significato che la bestia assumeva nel contesto sociale di fruizione dello scritto e/o in pochi altri a esso più o meno prossimi. Nel discorso sui Sethiani tramandato da Ippolito, il serpente è ciò da cui deriva lo spirito di generazione ed è l'elemento che si insinua nell'utero caotico in cui sono imprigionati Luce e Spirito per generare l'uomo corporeo, l'involucro che imprigiona il seme divino. Il Logos stesso si assimila alla bestia/serpente per ingannare Tenebra e liberare l'Intelletto perfetto dalle catene della materialità, a sua volta generato dal serpente/vento/bestia.
Il neoplatonico Damascio, riassumendo la teologia di Ieronimo ed Ellanico, sottolinea come in principio vi siano stati l'acqua e la materia da cui si è consolidata la terra. Da questi due principi ha preso forma un terzo principio, un serpente, dràkōn, con testa di toro e una di leone, e in mezzo il volto di un dio, con ali sulle spalle, chiamato Tempo senza vecchiaia e anche Eracle. Al serpente/tempo si è congiunta Ananke, e Damascio specifica che la stessa teologia rapsodica, da lui già riassunta in Pr. 123, non ha fatto altro che iniziare dal terzo principio della teogonia di Ieronimo ed Ellanico, in quanto il primo a possedere qualcosa di comunicabile in parole e di adeguato alle tradizioni degli uomini. Il serpente/Tempo senza vecchiaia, che Damascio sottolinea essere altamente onorato anche nella teologia rapsodica, è padre di Etere e Chaos, e da lui deriva una triplice discendenza, Etere umido, Chaos senza limiti ed Erebo nebbioso. Entro questi Tempo ha generato un uovo, diade delle nature che stanno in lui (maschile e femminile) e un dio incorporeo, co ali d'oro sulle spalle, teste di tori sui fianchi e un serpente mostruoso sul capo. Damascio conclude sottolineando che questa teologia celebra Protogono, chiamando Zeus colui che assegna un posto a tutte le cose e l'ordinatore dell'intero cosmo, denominato per questo anche Pan.
Sia la cosmologia dei Sethiani nella testimonianza di Ippolito, sia quella di Ieronimo ed Ellanico nel resoconto di Damascio, si presentano come discorsi protologici dal forte impianto combinatorio: tradizioni diverse si incrociano e si riassemblano nelle rispettive testimonianze che le tramandano. Come in parte sembra suggerire lo stesso Ippolito, nella parte finale della notizia sui Sethiani, la loro protologia si compone di elementi ampiamente attestati in altri ambiti culturali tardo-antichi: le tre essenze principali che lo compongono, Luce, Tenebra e Spirito, riassemblano elementi biblici e platonici, in aderenza a fenomeni di coabitazione culturale testimoniati già nel giudaismo ellenistico, soprattutto alessandrino (Filone di Alessandria), e in certo cristianesimo (il vangelo di Giovanni). La materia primordiale e caotica, presentata come acqua selvaggia (cfr. haer. V 19,5; parallelo in Par. Sem II 1.23), è una rielaborazine di influsi provenienti da Gen 1,2, non a caso testo apertamente riecheggiato da Ippolito anche nel prosieguo (cfr. haer. V 19,17). Il vento gagliardo che si solleva dall'acqua, definito anemos, protogonos, arche, causa di ogni generazione, riecheggia e reinterpreta l'anemos di Es 10,13 LXX, quello che YHWH, dopo che Mosè ha steso il bastone sull'Egitto, dirige sul paese da Oriente (nei LXX, la forma con cui i traduttori rendono più frequentemente rûah è pneûma). Il serpente a cui il vento è assimilato è ciò da cui proviene il principio della generazione, ed è definito ophis, proprio come il serpente di Gen 3,1 LXX. Ippolito riferisce che il vento che soffia gagliardo e spaventoso è simile a un serpente (haer. V 19,18: έστί τω σύρματι όφεωЅ παραπλ ήσιος), ed è interessante ricordare come il vento di Es 10,13 venga suscitato da Mosè tramite rhabdos, la stessa che diventa serpente in Es 4,3,7,9.10.15. Il passo di Pr. 123 bis trova una particolare corrispondenza nella testimonianza di Atenagora sempre in merito alla teogonia di Ieronimo ed Ellanico. Secondo l'apologista, gli dèi sono nati dall'acqua, essendo questa il principio di tutte le cose, e dall'acqua si forma il fango. Dalla coppia di acqua e fango nasce una creatura vivente, un serpente (drakon), con l'aggiunta di una testa come leone e di un'altra di toro e in mezzo ad esse un volto divino, il cui nome è Eracle e Tempo. Eracle genera un enorme uovo che, essendo completamente pieno, viene spaccato in due: la parte superiore diventa Cielo, ciò che precipita verso il basso Terra, e sempre dall'uovo viene fuori un dio incorporeo, Phanes, il primogenito, anche lui a forma di serpente, ingoiato da Zeus. L'uomo richiamato da Atenagora si ritrova in un altro passaggio dell'opera di Damascio, Pr. 123, liddove il neoplatonico riassume la teogonia orfica da lui definita "abituale", quella delle Rapsodie orfiche. Qui la prima triade si compone di Tempo, Etere e Chaos, l'uovo. La seconda triade è data dall'uovo creato e che porta in sé il dio, ovvero la tunica splendente, oppure la nuvola, perché da questi viene fuori Phanes, chiamato anche Metis, Erichepeo e Phanes stesso. Damascio specifica che "tale è la teologia orfica abituale" (Τοιαύτη μέν ή συνήθης <όρφιχή θεολογία>), e la notazione acquista una certa rilevanza se confrontata con i frammenti di teocosmogonie ricondotti ad ambiti orfici e trasmesse da altri neoplatonici. Le coincidenze con materiali orfici riportati soprattutto da testimonianze della tarda età imperiale non devono portare a sottovalutare convergenze con elementi cosmo-teogonici attestati già in epoca classica. In un noto passo degli Uccelli (685-703), in cui Aristofane contrappone gli uomini agli esseri immortali, il principio procede da Chaos, Notte, Erebo oscuro e Tartaro (av. 693). Aristofane sta ribattendo ad un o dei più importanti sofisti del tempo, Prodico di Ceo, per rilevare la sostanziale vacuità delle sue tesi. L'argomentazione del commediografo poggia sull'autorità di una teogonia attraverso la quale mostrare tutta la verità sulle cose celesti, la natura degli uccelli e degli dèi, dei fiumi, dell'Erebo e del Chaos (690-693). il riferimento a Chaos, da cui deriva un uovo infecondo, echeggia nella prima triade di Damascio, sebbene manchino riferimenti al Tartaro, all'Erebo e alla Notte. Erebo compare, però, come abbiamo visto, anche in Pr. 123 bis, dove è menzionata la triplice discendenza generata dal serpente-tempo (Etere, Chaos, Erebo).
Ippolito sottolinea che il sistema sethiano deriva dagli antichi teologi, Museo, Lino e Orfeo.
Έστι δέ αυτοις η πασα διδασχαλία του λόγου από των παλαιων θεολόγων, Μουσα
ίου χα ί Λίνου χα ί του τάς τελετ άς χα ί τά μυστήρια μ άλιστα χαταδε ίξαντος Όρφέως.
Ο γάρ περ ί της μήτρας α υτων χα ί του όφεως λ όγος χα(ί) <του> ομφαλου –
ό<σ>περ εστίν αρμονία – διαρρήδην α υτός εστιν <τω> εν τοις Βαχχιχοις
του Όρφέως.
Anche Atenagora collega la teologia di Ieronimo ed Ellanio a Orfeo, soprattutto quando sottolinea che tutti concordano sul fatto che gli dèi nascono come noi nasciamo, per cui Orfeo, colui che per primo inventò i nomi degli dèi e ne raccontò con precisione la nascita, e per questo mostra di possedere un certo credito tra i greci come vero teologo, ha fatto nascere gli dèi dall'acqua. Il resoconto di Atenagora, inoltre, esplicitamente riporta che "secondo lui, infatti, l'acqua era il principio di tutte le cose, e dall'acqua si formò il fango, e da quella coppia nacque una creatura vivente, un serpente...". Il χατ’ α υτόν con cui Atenagora introduce la seconda parte del resoconto si riferisce chiaramente all'ultimo personaggio menzionato, appunto Orfeo, per cui è possibile accettare, almeno in parte, alcune delle argomentazioni di P.R. Schuster, e in parte quelle di West: il primo ha notato che le somiglianze verbali tra Damascio e Atenagora sono piuttosto strette, il secondo, invece, ha osservato che se i due non dipendono l'uno dall'altro, almeno dipendono da una fonte comune, che però Atenagora attribuisce a Orfeo e Damascio a Ieronimo ed Ellanico (sebbene Pr. 123 mostri come la teogonia di Ieronimo ed Ellanico avesse, nella ricostruzione del neoplatonico, non poche coincidenze con la teogonia "orfica abituale").
Se i discorsi protologici di Damascio appaiono costruzioni saldamente impiantate nella riflessione neoplatonica, gli elementi su cui essi poggiano si fondano su giochi terminologici e concettuali, su assonanze con nozioni e concetti attestati in contesti più antichi ricondotti in vario modo alla figura di Orfeo. La protologia sethiana, con la sua forte coloritura filosofica ed insieme esegetica, viene, stando almeno al resoconto di Ippolito, anch'essa ricondotta a un'ambito "orfico" in cui tradizione e innovazione coincidono, specchio di mutamenti interni a 'elitès tese a un vero e proprio lavorìo ermeneutico su tradizioni in questi contesti ritenute autorevoli. Sia nella costruzione cosmo-teogonica di Ippolito, sia in quelle di Damascio, riflessione filosofica e credenza religiosa, cosmogonia e teogonia si uniscono in una sintesi di estrema complessità, in aderenza ad ambiti culturali dominati da 'eliès votate alla salvaguardia delle proprie tradizioni al fine di una loro rifunzionalizzazione, sia essa polemica o confermativa, nell'oggi.
La (ri)costruzione cristiana dell'orfismo, così come la (ri)costruzione neoplatonica del medesimo fenomeno, intese come piattaforme uniformanti su cui fondare e/o stagliare la novità, o anche la superiorità dei rispettivi propria, devono necessariamente fondarsi su autorità passate, ed è in tale contesto che vanno compresi i discorsi protologici di Ippolito e Damascio analizzati. Come Eusebio sfrutta, ad esempio, Poliistore, proprio per rilevare una certa identità tra giudaismo e paganesimo, o quanto meno una certa continuità tra i due, ma sempre per mettere in luce l'avvento intrinsecamente sintetico e perfezionante della dottrina cristiana, allo stesso modo Taziano e Clemente, nella loro invenzione dell'orfismo, si fondano, tra l'altro, sulla figura di Onomacrito come colui che avrebbe per primo raccolto e messo insieme le tradizioni c.d. orfiche. Nel primo caso ci troviamo di fronte alla ripresa di un testo il cui sezionamento, e relativo inserimento in un nuovo contesto, giunge a definirne ex novo il significato; nel secondo, sembra che la figura dell'editore funga da supporto alla necessità dell'apologista di fondare l'esistenza di una traditio orphica, minandone però al tempo stesso l'antichità. Damascio, dal canto suo, dà per scontata l'esistenza di una "teologia orfica abituale", ma sembra riassemblare la fonte che forse ha condiviso con Atenagora citando un'altra che quest'ultimo non nomina e introducendo, come protoi heuretai, proprio le figure di Ippolito ed Ellanico.
Anche Atenagora collega la teologia di Ieronimo ed Ellanio a Orfeo, soprattutto quando sottolinea che tutti concordano sul fatto che gli dèi nascono come noi nasciamo, per cui Orfeo, colui che per primo inventò i nomi degli dèi e ne raccontò con precisione la nascita, e per questo mostra di possedere un certo credito tra i greci come vero teologo, ha fatto nascere gli dèi dall'acqua. Il resoconto di Atenagora, inoltre, esplicitamente riporta che "secondo lui, infatti, l'acqua era il principio di tutte le cose, e dall'acqua si formò il fango, e da quella coppia nacque una creatura vivente, un serpente...". Il χατ’ α υτόν con cui Atenagora introduce la seconda parte del resoconto si riferisce chiaramente all'ultimo personaggio menzionato, appunto Orfeo, per cui è possibile accettare, almeno in parte, alcune delle argomentazioni di P.R. Schuster, e in parte quelle di West: il primo ha notato che le somiglianze verbali tra Damascio e Atenagora sono piuttosto strette, il secondo, invece, ha osservato che se i due non dipendono l'uno dall'altro, almeno dipendono da una fonte comune, che però Atenagora attribuisce a Orfeo e Damascio a Ieronimo ed Ellanico (sebbene Pr. 123 mostri come la teogonia di Ieronimo ed Ellanico avesse, nella ricostruzione del neoplatonico, non poche coincidenze con la teogonia "orfica abituale").
Se i discorsi protologici di Damascio appaiono costruzioni saldamente impiantate nella riflessione neoplatonica, gli elementi su cui essi poggiano si fondano su giochi terminologici e concettuali, su assonanze con nozioni e concetti attestati in contesti più antichi ricondotti in vario modo alla figura di Orfeo. La protologia sethiana, con la sua forte coloritura filosofica ed insieme esegetica, viene, stando almeno al resoconto di Ippolito, anch'essa ricondotta a un'ambito "orfico" in cui tradizione e innovazione coincidono, specchio di mutamenti interni a 'elitès tese a un vero e proprio lavorìo ermeneutico su tradizioni in questi contesti ritenute autorevoli. Sia nella costruzione cosmo-teogonica di Ippolito, sia in quelle di Damascio, riflessione filosofica e credenza religiosa, cosmogonia e teogonia si uniscono in una sintesi di estrema complessità, in aderenza ad ambiti culturali dominati da 'eliès votate alla salvaguardia delle proprie tradizioni al fine di una loro rifunzionalizzazione, sia essa polemica o confermativa, nell'oggi.
La (ri)costruzione cristiana dell'orfismo, così come la (ri)costruzione neoplatonica del medesimo fenomeno, intese come piattaforme uniformanti su cui fondare e/o stagliare la novità, o anche la superiorità dei rispettivi propria, devono necessariamente fondarsi su autorità passate, ed è in tale contesto che vanno compresi i discorsi protologici di Ippolito e Damascio analizzati. Come Eusebio sfrutta, ad esempio, Poliistore, proprio per rilevare una certa identità tra giudaismo e paganesimo, o quanto meno una certa continuità tra i due, ma sempre per mettere in luce l'avvento intrinsecamente sintetico e perfezionante della dottrina cristiana, allo stesso modo Taziano e Clemente, nella loro invenzione dell'orfismo, si fondano, tra l'altro, sulla figura di Onomacrito come colui che avrebbe per primo raccolto e messo insieme le tradizioni c.d. orfiche. Nel primo caso ci troviamo di fronte alla ripresa di un testo il cui sezionamento, e relativo inserimento in un nuovo contesto, giunge a definirne ex novo il significato; nel secondo, sembra che la figura dell'editore funga da supporto alla necessità dell'apologista di fondare l'esistenza di una traditio orphica, minandone però al tempo stesso l'antichità. Damascio, dal canto suo, dà per scontata l'esistenza di una "teologia orfica abituale", ma sembra riassemblare la fonte che forse ha condiviso con Atenagora citando un'altra che quest'ultimo non nomina e introducendo, come protoi heuretai, proprio le figure di Ippolito ed Ellanico.
Luca Arcari

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